Roger Federer, le 10 migliori partite | L'Ultimo Uomo

2022-11-03 14:39:11 By : Mr. Richard Li

Dieci sfide per raccontare la sua storia e la sua evoluzione.

Roger Federer scendeva in campo come se fosse appena uscito dalla doccia. Una camminata calma, perfettamente rilassata, il volto sempre aperto in un sorriso cortese ma non finto. Scendeva in campo con l’iconica fascia sopra la fronte e indossando la giacca che di volta in volta il suo sponsor tecnico aveva immaginato per la sua ultima sfilata. Sui prati di Wimbledon aveva una luce particolare, risplendeva di tutte le ere del tennis possibili. Non c’era un filo di tensione, né di aggressività; nessun senso di sfida, o di agonismo. Ogni volta l’aria vibrava della promessa di uno spettacolo diverso ma sempre unico nel suo genere. Uno spettacolo in cui il senso di competizione era celato dall’estetica, l’agonismo mascherato dalla creatività. Il tennis diventava qualcosa di più alto e astratto: uno schema di possibilità dentro cui Roger Federer poteva esprimersi seguendo la sua ispirazione. Chiunque stava per assistere a una partita di Federer sapeva di potersi aspettare qualcosa in più di una semplice partita di tennis. 

È sceso in campo 1526 volte, e per 1251 volte ne è uscito con una vittoria. A poco più di un mese dal suo ritiro abbiamo raccolto dieci partite che ne hanno definito la sua presenza sul campo da tennis. Dieci partite giocate contro avversari diversi in momenti diversi: ciascuna capace di raccontare la sua evoluzione narrativa e stilistica. Ogni partita descrive una fase diversa della sua carriera e del suo tennis. La prima che abbiamo scelto si è giocata a luglio del 2001, l’ultima a luglio del 2019: 18 anni in cui il tennis è cambiato, cercando di raccogliere la sfida lanciata da Federer nel 2003, l’anno in cui vinse il suo primo Wimbledon con un gioco che non si era mai visto, promettendo un regno dalla lunghezza sterminata. E in questi 18 anni anche Federer è dovuto cambiare, per essere all’altezza di sfidanti sempre migliori. Ha aggiustato il proprio gioco intorno ai limiti crescenti di un corpo sempre meno reattivo, drammaticamente in contrasto con un tennis sempre più potente e veloce. Ciascuna di queste partite rappresenta un punto di svolta del doppio conflitto, tra Federer e il tennis che cambia, e tra Federer e sé stesso.

La partita più iconica – vs Sampras – 7-6 (9-7) 5-7 6-4 6-7 (2-7) 7-5  – Ottavi di finale Wimbledon 2001

Roger Federer aveva un’idea piuttosto precisa del tipo di tennista che voleva essere. Nell’archetipico dualismo tra artisti e lavoratori aveva sempre preferito i primi ai secondi. È cresciuto con in camera i poster di Stefan Edberg e Pete Sampras, sognava di giocare sul centrale di Wimbledon, laddove l’erba è più gentile con la sensibilità del polso e dove i più grandi vengono incoronati in una dinastia lunga più di cento anni. Così, quando scende in campo il 2 luglio del 2001 e accanto a lui c’è Pete Sampras, un po’ d’emozione è comprensibile. È strano da rivedere oggi, Roger Federer teso e incerto, mentre cerca di non lasciarsi sopraffare dagli applausi del Centre Court. Guarda Sampras accanto a sé e cerca di copiarne i tempi e i gesti cerimoniali. Sampras è il capo di quei campi dal 1996, anno a cui risale la sua ultima sconfitta, contro il lunghissimo Richard Krajcek, di cui Foster Wallace diceva che «gioca come una gru impazzita». Sampras è irsuto e come lievemente ingobbito dal peso dei suoi violentissimi smash. Insegue il suo ottavo Wimbledon, che lo renderebbe l’unico uomo a riuscire in un’impresa tanto tirannica. Federer è numero 15 del mondo, indossa una catenina stretta di conchiglie in stile californiano e finora ha dato segnali contraddittori sulla profondità del suo talento. Troppo fragile, troppo indisciplinato, forse in fondo nemmeno così eccezionale. In un tennis di specialisti sembrava sprovvisto di colpi eccezionali, di uno stile definito: sapeva fare più o meno tutto, ma questo sembra più un limite che un vantaggio. Tre anni prima aveva trionfato a Wimbledon juniores, ma l’albo d’oro del torneo giovanile è fatto di qualche aristocratico della racchetta che rompe una sequenza notevole di talenti caduti in disgrazia.

È importante ricostruire questo contesto, perché ciò che a posteriori può sembrarci una morbida e naturale successione al trono fu in realtà una vittoria inattesa e fulminante. 

Perché il regicidio potesse avvenire, Federer aveva bisogno di vincere il primo set e mettere di fronte a Sampras una strada in salita. Ci riesce al termine di un tiebreak sudatissimo risolto da un mini-break sul 7 pari. Una risposta di Roger tocca il nastro e prende in controtempo Sampras, nel frattempo già sceso a rete. L’americano è costretto a una complicata volée di rovescio di cui non riesce ad allungare abbastanza la traiettoria. La palla è sul rovescio di Federer, che si concentra nel colpire forte e basso. La palla rimbalza sulla racchetta di Sampras e schizza via. L’americano non riesce nemmeno a organizzare la volée, come sorpreso dalla rapidità del colpo avversario. Peter Carter ha ricordato: «C’era un senso di stupore collettivo. La gente pensava “aspetta, sta succedendo qualcosa. Il modo in cui Federer si muoveva catturava l’occhio».

Saranno diversi i momenti in cui il tennis di Sampras è sembrato, di fronte a quello di Federer, il residuato bellico di un’epoca dimenticata. Una tecnologia antica e superata, ormai incapace di offrire una degna resistenza competitiva. Sampras e Federer vengono per comodità riportati sotto la stessa categoria di tennisti, offensivi e sensibili. Oggi fa impressione notare però la differenza stilistica tra i due, così profonda da riflettere due epoche diverse venute allo scontro per caso. Sampras possedeva un impareggiabile sensibilità nel gioco di volo, ma il suo tennis ha sempre avuto delle venature grette e brutali. Certe sue discese a rete avevano una risolutezza cestistica, l’equivalente di un attacco al ferro di Michael Jordan, ma senza la sua ineffabile leggerezza. Sampras si arrampicava sopra la rete come preso dalla furia di voler schiacciare il suo avversario. Quel giorno però abbiamo avuto una rivelazione di obsolescenza. Come quando sentiamo un uomo politico perdere un giro di brillantezza nei suoi ragionamenti, un filo di fluidità nel suo eloquio. Sampras si muove in modo pesante, attacca la rete con un’urgenza che sembra sconclusionata. Di fronte alla rapidità, alla leggerezza, all’incisività del tennis di Federer, la risolutezza di Sampras sembra incoscienza. Il suo gioco a rete pare impaziente e il suo gioco inservibile. Questa sensazione di impotenza, di fronte a un altro giocatore che pratica un gioco dalla velocità incomprensibile, Federer non la proverà mai davvero. Il suo talento è sempre stato di una materia diversa e resistente a qualsiasi evoluzione.

Servono comunque cinque set a far maturare questa rivelazione. Sampras vince il secondo set con un rendimento perentorio al servizio. In quegli anni l’artiglieria del suo servizio, su un erba così veloce, mirava in certi momenti al naturale annullamento della partita. Il suono sul centrale diventava monotono: questi scoppi di fucile della prima di servizio intervallati dagli applausi leziosi del pubblico.

Nel terzo set Federer ritrova ritmo in risposta, ma nel quarto è ancora il servizio di Sampras a comandare. È allora nel quinto set che in Federer sboccia una consapevolezza diversa dal modo rapsodico con cui aveva mostrato il suo talento fino a quel momento. Quando arriva il momento decisivo è calmo e deciso a sfruttare la pressione sulle spalle del suo avversario. La pressione di essere il re di quei campi, un giocatore che arriva da 31 vittorie consecutive sui prati londinesi. Sul 5-6 del quinto set Sampras serve per rimanere in partita e Federer affina il suo istinto in risposta. Una lettura istintiva del servizio avversario che si avvicina al sesto senso. Nessuno era sembrato così a proprio agio a rispondere alla battuta di “Pistol Pete” come Federer in quell’ultimo decisivo game. Sul matchpoint sente che gli servirà sul dritto, è pronto, lo passa, cade con le ginocchia a terra per la prima volta in carriera. Subito dopo l’ultimo punto prova una vaga sensazione di tristezza, quella che si prova mentre ci troviamo a vivere un traguardo sognato da lungo tempo, e che in quel momento sembra leggermente fuori da noi. La percezione, sinistra, che la gloria è sempre effimera e non potremo mai possederla davvero: può solo attraversarci lasciando un pulviscolo di felicità.

Quell’inquietante sensazione di essere stato scavalcato dalla storia Sampras la esprime con lucidità nell’intervista dopo la partita. «Ci sono tanti giovani che stanno venendo fuori, ma Roger ha qualcosa di speciale. Ha un gioco completo, e come me non si lascia andare troppo alle emozioni. Dovete dargli fiducia». Dopo il suo ritiro Sampras dedicherà a Federer  un video da casa sua, magro e incanutito dirà che ha ammirato la grazia con cui ha affrontato la vittoria e la sconfitta. Dirà che la sua assenza lascerà un grande vuoto nel tennis. 

A distanza di anni Federer ancora definisce quella partita come la sua più iconica.

La prima volta in cui sembra un giocatore diverso da tutti – vs Roddick 7-6, 6-3, 6-3 – Semifinale Wimbledon 2003

La storia di formazione di Roger Federer è piena di inciampi, più di quanto siamo disposti a ricordare. Nel lasso di tempo che passa tra la sua vittoria contro Sampras e la vittoria del suo primo Slam passano due anni vissuti con la pressione alta. Cammina su una lastra sottile che divide il campione dal talento inespresso: ogni suo fallimento ritardava il primo autentico momento di gloria, aggiungendo pressione su un giocatore che non sembrava ancora in grado di controllarla e girarla a proprio vantaggio. Il tono delle sue interviste comincia a farsi risentito: «Credo che un giorno diventerò numero uno del mondo, e quando ci riuscirò temo di non ricevere il giusto credito. Le persone diranno che ci ho messo troppo tempo per arrivare lì».

Wimbledon 2003 prende sin dai primi turni i contorni di una grande occasione. Hewitt, campione uscente, è fuori forma e si fa eliminare al primo turno; Agassi agli ottavi. Per il resto, con Sampras ritirato e Safin in crisi d’identità, il tennis maschile vive un periodo d’incertezza e scarsa popolarità. Gli americani hanno bisogno di un nuovo campione dopo la fine della rivalità tra Sampras e Agassi, e trovano questo ragazzo che si muove con troppa ansia per essere un tennista. Si chiama Andy Roddick e il suo servizio viene descritto con esagerazioni fumettistiche, come fosse uno strumento bellico, un’arma impropria. Un’impressione rafforzata dal fatto che ha uno stile di caricamento tutto suo, e di far leva sul proprio corpo. Non ha l’armonia circolare dei grandi servitori; il suo è un movimento improvviso e rattrappito, ma che riesce a raggiungere anche i 250 km/h. «Le persone vedono il mio braccetto da pollo e sono sorprese dal mio servizio, non capiscono quanto il servizio dipenda dalle gambe». Questo gioco tutta potenza sembra esprimere meglio lo zeitgeist dell’epoca rispetto alla lievità di Roger Federer. 

I due arrivano ad affrontarsi in semifinale, sono il numero 4 e 5 del mondo e sembrano molto vicini, in quel momento è difficile pronosticare chi avrà la carriera migliore. Oggi ci suona assurdo calcolando la differenza di impatto nel tennis, e anche il senso unico in cui si è sviluppata la loro rivalità. Eppure in quel momento Roddick era forse considerato leggermente favorito: perché aveva vinto al Queen’s, dove chi vince diventa il favorito di Wimbledon per tradizione, e perché la stampa americana lo aveva descritto in crescita costante, e quindi nel momento giusto per ribaltare una striscia di confronti diretti in cui Federer era comunque avanti 3-0. Hewitt non sembrava avere il tennis per stabilire una vera monarchia a Wimbledon, e allora in quella partita c’è in palio la successione al trono di Sampras, nonostante sia solo una semifinale. Del resto dall’altro lato del tabellone giocano contro Philippousis e Grosjean. Nel cammino entrambi avevano perso un solo set, Roddick contro il tailandese Sritchapan, e Federer contro Fish, ma al quarto turno con Feliciano Lopez era andato pericolosamente vicino al ritiro per un problema fisico. Una delle sliding door della sua carriera.

Al tiebreak del primo set Federer deve fronteggiare un setpoint sul servizio di Roddick. È raro che l’americano perda punti sul proprio servizio, specie quando entra la prima. Entra anche in quell’occasione e Federer si limita a pararla col rovescio, quasi in caduta. Roddick ha un diritto d’attacco comodo a metà campo, ma lo sbaglia. È uno degli errori che spiccano nel proprio quaderno dei rimpianti. Federer chiude un primo set molto equilibrato, e nel primo game del secondo annulla una palla break con una stop volley di rovescio spinta con un guanto dall’altro lato del campo. Federer aveva attacco la rete con dei passetti rapidi e furtivi, diversi dalla precipitazione con cui approcciavano la rete i grandi giocatori di volo. Federer non era tra loro: usava le volée come arma tattica, o per spremere i punti lavorati da fondo. Il serve&volley era sporadico, non sistematico. 

Dal secondo game del secondo set il tennis di Federer inizia a prendere una consistenza diversa: più ispirata, leggera, eterea. Gli scambi sterzano seguendo l’ispirazione del suo dritto, fluido, potente, illeggibile. Se Roddick riesce a difendersi, arriva un colpo di chiusura, una volée, un ricamo, un altro dritto tirato con disinvoltura nel lato vuoto del campo. Quel giorno Federer si scrolla di dosso la tensione che aveva appesantito il suo gioco fino a quel momento della carriera, e spicca il volo. Inizia a giocare a tennis a qualche centimetro da terra, da dove esplora tutte le possibilità del suo repertorio senza perdere la centralità essenziale del suo dritto. Quando è ispirato, però, riesce a risolvere i momenti più tesi con colpi estemporanei rispetto non solo alla partita ma alla realtà stessa. Uno di questi momenti arriva sulla palla break del secondo game. Roddick lo attacca e lo spinge ai margini del campo. Federer dondola a destra e a sinistra e, con la palla che sfiora i fili d’erba, riesce ad alzare passanti insidiosissimi. Ne tira due, su cui Roddick fa due miracoli, di cui una volée in tuffo alla Becker, che ricade negli ultimi centimetri di campo. Federer ha una rapidità di piedi eccezionali. Non solo arriva sulla volée, al termine di uno scambio così sfibrante, ma ci arriva con una stabilità sufficiente per tirare un passante ancora più stretto e letale. Roddick, con le mani sui fianchi, vive uno di quei momenti di scoraggiamento abissale. Un senso di impotenza di fronte a un fenomeno paranormale.

Roddick in quella partita gioca bene. Non al suo livello assoluto, visto che il tentativo di rincorsa su Federer lo spingerà a superare i suoi limiti negli anni successivi, a limare sempre di più i propri difetti. Gioca però una partita all’altezza di una finale di Wimbledon; il suo dritto e il suo servizio hanno funzionato come nelle migliori giornate. Eppure è stato annichilito da Federer, che tra il secondo e il terzo set alza ulteriormente il livello del proprio gioco, marcando una differenza col suo avversario difficile da immaginare prima di quella partita. Ci sono state altre vittorie schiaccianti, in cui Federer ha giocato in quel particolare stato di ispirazione mistica in cui sembra vedere le cose prima degli altri. Questa però è stata la prima volta che è riuscito a seguire quel flow in un contesto così teso e prestigioso. 

Da bambino girava per il suo circolo di Basilea ripetendo che sarebbe diventato il miglior giocatore al mondo ma in pochi fino a quel momento gli hanno creduto davvero. Quel giorno, sul prato del centrale, la realtà ha preso per la prima volta la forma della sua fantasia più sfrenata. Non sarà certo l’ultima. La finale contro Philippousis è stata meno una formalità di quanto ricordiamo, forse, ma risolto il primo set Federer ha corso velocemente verso la propria incoronazione.

Forse non proprio tutti lo ricordano, ma il 2003 è l’anno in cui Rafael Nadal fa il suo esordio a Wimbledon, diventando il più giovane a spingersi fino al terzo turno dai tempi di Boris Becker. Gli ci vorrà ancora qualche tempo, per ricucire la distanza che lo separa da Federer a Wimbledon.

Un’opera di demolizione – vs Hewitt 6-0, 7-6 (3), 6-0 – Finale US Open 2004

C’è stato un momento della storia in cui si pensava che Roger Federer non potesse mai riuscire a battere Lleyton Hewitt. Uno è svizzero e l’altro australiano, eppure hanno condiviso una parte importante del loro percorso giovanile. Hanno avuto entrambi allenatori australiani, Darren Cahill e Peter Carter, che sono stati amici. Capitava di allenarsi insieme. Peter Carter veniva dalla scuola tennis di Peter Smith, che è la stessa in cui è cresciuto Hewitt. Si incontrano per la prima volta nel 1996, a Basilea, in un periodo in cui tendono a vivere il tennis con rabbia. Volano insulti e racchette. Federer riesce a vincere annullando un matchpoint. Hewitt non sa più come impazzire, così dà un pugno alle corde della racchetta con tutte le sue forze. Le corde si spezzano, mentre le sue mani grondano sangue.

Nel periodo in cui Federer fatica a raccogliere il suo gioco in un’idea precisa, Lleyton Hewitt vince il suo primo Slam. Aveva un talento infinitamente inferiore, ma non accettava la sconfitta. Peter Carter glielo indicava come un esempio da seguire.

Col pugnetto alzato, il tennis gladiatorio e lo sguardo arrabbiato, Hewitt è il contrario antropologico di Federer. Non li separa solo la diversità di stile, ma un fondamentale approccio agonistico. Federer fa vivere i suoi spettatori nell’illusione che il tennis sia un gioco, o forse un arte, o comunque la forma che lui ha scelto per esprimere la creatività. Per Hewitt il tennis è invece questione di vita o di morte. La ferocia con cui battagliava in campo oggi ci può sembrare ingenua, nell’epoca dei pugnetti onnipresenti di Alcaraz e della resistenza inscalfibile di Djokovic, ma all’epoca era rivoluzionaria. Hewitt esprimeva un agonismo, un desiderio di vincere, che nella storia del tennis era stato messo tra parentesi, con qualche eccezione mal vista (Jimmy Connors). Federer rispetto a lui sembrava naif.

Dopo la fiammata del 2002, nel 2003 Hewitt ha ridotto di molto il suo impatto nel circuito. Ha vinto solo due tornei quell’anno: poco per quello che era stato numero uno al mondo. Per un certo periodo si è persino pensata l’ipotesi più crudele, e cioè che fosse stato una semplice meteora. In realtà nel 2004 rientra a grandi livelli e dopo un’ottima stagione sul cemento americano, agli US Open arriva fino alla finale senza perdere un solo set. Federer ne aveva perso uno da Baghdatis e sfiorato la sconfitta in semifinale contro il vecchio Agassi in una partita squassata dal vento. Ne è venuto a capo al quinto set, proprio nel momento in cui sembrava aver sbriciolato le proprie sicurezze. Hewitt era in vantaggio su di lui negli scontri diretti, aveva vinto gli ultimi tre confronti e nell’ultimo, in Coppa Davis, Federer aveva perso malamente, 1-6 al quinto set dopo essere stato in vantaggio di due parziali a zero.

È l’ultima edizione che si gioca sul cemento verde, prima dell’introduzione di quello blu, e dal primo game Federer comincia a disegnarlo come se avesse il telecomando. Nel primo punto, da fermo, senza nessuno sforzo apparente, tira un dritto all’incrocio delle righe su cui Hewitt rimane fermo immobile. L’aggressività con cui preme da fondo è spaventosa, e solo la sua assoluta grazia e rilassatezza riescono a mascherarla. Le persone sugli spalti ridono. Vince il primo set 6-0. È una di quelle partite in cui, dentro un’allucinazione percettiva, Federer sembra vedere la pallina più grande, il campo avversario più lungo e più largo. Sembra sapere in anticipo dove gli tirerà l’avversario e arrivarci già stabile con gli appoggi, pronto a tirare colpi che sfruttano qualche microsecondo d’anticipo rispetto alla realtà.

Sul 15 pari del secondo set manda lungo un rovescio di qualche centimetro e il pubblico esplode in un boato di sorpresa: può davvero commettere errori?

Tira rovesci stretti in topspin ma anche in back, con palle che filano radenti e inconcepibili. Dei colpi che nessuno giocava, inventati di sana pianta. Scende a rete così veloce che l’altro non riusciva nemmeno a organizzare mentalmente un passante. Si ritrova Federer davanti come fosse onnipresente. Serve un ace dietro l’altro con la facilità di chi deve fare centro con una pallina da ping pong dentro una piscina. Vince 6-0, 7-6 (3), 6-0.

È una delle prestazioni più dominanti nel periodo più dominante di Roger Federer. Nessuno era mai riuscito a far sembra così inadeguato uno dei migliori tennisti della propria epoca, al punto che dopo la partita Hewitt dice che non c’è nessuno che può competere con lui nell’attuale circuito. Forse il miglior Pete Sampras, riesumandolo dal passato, ma ecco, non sarebbe sicuro nemmeno di quello. In quel periodo sembrava davvero onnipotente. Hewitt, uno dei più lottatori più formidabili del circuito, ha alzato bandiera bianca: «Quando gioca così non c’è niente che si possa fare». Non è semplice stabilire quale sia stato il miglior Federer di sempre, la discussione è aperta e ciascuno può portare i suoi argomenti. Nel 2004 Federer inaugura un triennio di dominio che si prolunga fino al 2006. In quel periodo che va dai 23 ai 25 è difficile dire se Federer abbia raggiunto il suo apice competitivo perché quasi nessuno riusciva ad aprire una competizione con lui. Era distante e inavvicinabile, giocava a tennis con una facilità che faceva sembrare gli altri sbagliati. Competeva con i numeri e non con altri tennisti: aveva giocato quattro finali e vinto quattro finali, aveva vinto tre tornei dello Slam in una sola stagione e l’ultimo a riuscirci era stato Mats Wilander. È un periodo di dominio incontrastato durato tre anni che fatichiamo a ricordare, perché Federer attraverserà molte altre vite tennistiche, arriveranno sconfitte e i suoi rivali definiranno la sua storia in modo più profondo di quanto abbia fatto quel periodo di tirannia. In quel periodo anzi qualcuno cominciava a essere insofferente nei suoi confronti, perché un tennista che sopprime l’incertezza del risultato priva lo sport di una sua parte essenziale. In fondo è una questione di gusto: preferite il Roger Federer che si scontra e lotta con i propri limiti, o quello che dava l’impressione di non averne? Nello sport cercate la sublimazione dell’umano o la manifestazione del divino?

Federer però in quel periodo costruisce se non altro uno spettacolo tutto suo, in cui le persone si mettono davanti a una partita solo per il gusto di guardarlo sottomettere i suoi avversari con la massima eleganza possibile. Come l’esibizione di un grande mago che si serve dei suoi avversari come umili assistenti. Oppure, se riuscite a riconoscerne la violenza, come in Funny Games, una persona che tortura un’altra occultando la brutalità dietro un’esattezza e una precisione da valzer. Federer  riconosce quella come una delle sue prestazioni più eccezionali. «In diverse occasioni ho detto che se avessi voluto rivivere una partita, sarebbe stata questa. Una finale del Grande Slam che inizia e finisce con un 6-0, lo trovo favoloso. Sarà interessante vedere quante volte si ripeterà in futuro. Di solito, nella finale di un Grande Slam, hai qualcuno davanti a te che ti causa dei problemi. Inoltre Hewitt, per me, era un problema. È stato in questa partita in cui mi sentivo come se tutto ciò che stavo facendo – nelle diverse varianti – fosse incredibile. In quel momento mi sono sentito il numero uno del mondo, quindi è stata una partita molto speciale, sì».

Qualche mese più tardi un Rafael Nadal ancora acerbo gli toglie almeno la tranquillità di passeggiare da trionfatore anche a Parigi.

La partita più lunga e quella più tesa – vs Nadal 7-6(0), 6-7(5), 4-6, 6-2, 6-7(5) – Finale Roma 2006

A maggio del 2006 Federer è in questa particolare situazione: è il monarca assoluto del tennis mondiale, ma c’è un altro giocatore, più giovane di lui, che continua a batterlo. Ancora e ancora. Aveva incontrato Nadal per la prima volta nell’umidità di Miami e forse lo aveva preso sotto gamba. Aveva perso senza mai entrare davvero in partita. Un anno dopo l’ha incrociato di nuovo sugli stessi campi e, con tutta l’applicazione necessaria, era riuscito a sconfiggerlo in cinque set travagliati. Che fatica, per lui che aveva disimparato a faticare. Al Roland Garros del 2005 è la prima volta che Federer sembra avere tutta l’intenzione di vincere lo Slam sulla terra, ma in semifinale incontra ancora questo teenager metà pirata, metà ragazzo selvaggio, che lo batte in modo piuttosto netto. Portava la canottiera, i pinocchietto, era ossessionato dalle sue mutande e da ciocche di capelli che, indisciplinate, si ostinavano ad andargli davanti alle orecchie. Federer sembra non capire, e si innervosisce. Figuriamoci quando si fa battere anche a Dubai, sul veloce, in uno dei suoi tornei preferiti. Montecarlo è dove Nadal comincia il suo piccolo rito: dall’inizio alla fine della stagione sulla terra europea vince tutte le partite. In finale incontra Federer, che però ha capito che deve fare qualcosa in più per riuscire a sciogliere l’enigma. Perde ancora, ma in 4 set, si avvicina.

A maggio del 2006 Federer e Nadal si incontrano in finale a Roma e siamo a uno dei momenti di massima tensione della loro rivalità. Perché quello che sarebbe in teoria più grande dell’altro continua a perdere, e a veder contestata la sua autorità, persino il suo valore. Federer aveva un’ambizione di dominio totale, mentre Nadal difendeva il suo fortino sulla terra continuando a respingere gli assalti del re. Federer non riusciva più a nascondere i suoi segni di nervosismo.

Nadal è al culmine del suo strapotere fisico e può trovare vincenti dalle zone di campo e dai contesti più compromessi, piegando il suo corpo ad angolazioni impossibili. Questa sua capacità di respingere e amplificare il gioco offensivo di Federer crea una partita fitta di scambi fantascientici. È la prima manifestazione piena del Fedal, in cui i due giocatori estendono le proprie possibilità tennistiche. Federer vince il primo set grazie a un tiebreak dominato, 7-0, dopo aver sciupato un paio di setpoint, e va vicino a vincere anche il tiebreak del secondo, dove è avanti 3-1. Si perde però in un bicchier d’acqua, sbagliando grossolanamente un attacco di dritto sul 5 pari, e finisce per perdere il secondo set.

Federer cerca di disinnescare il velenoso topspin di Nadal, e Nadal a contenere la velocità del dritto di Federer. Il contesto tattico della partita si gioca sulla capacità di Federer di uscire dall’angolo estremo di sinistra, quello a cui lo spinge Nadal con palle cariche di effetto che toccano terra e sembrano rimbalzare verso il sole. Troppo difficili per il suo rovescio a una mano.

Nel quinto game del terzo set esplode il nervosismo di Federer, contrariato verso tutti – il vento, gli arbitri e qualche voce fastidiosa che arriva dagli spalti. Non è una voce qualsiasi ma quella, un po’ nasale, di Toni Nadal. «Ok Toni, basta» gli dice Federer stizzito, che lo accusa implicitamente di coaching. Lo spessore della partita è dato anche da questa tensione irrituale per Roger e Rafa. Alla fine del match Federer sottolineerà ancora il coaching di Toni, e Rafa gli risponderà ai microfoni di una radio spagnola, tagliando corto: «Federer deve imparare a perdere». Nadal cita anche il fatto che Federer, in un’occasione, ha mostrato all’arbitro un segno diverso da quello effettivo della pallina, per trarne vantaggio. Molti anni dopo Toni ammetterà di aver fatto coaching, senza vergogna: era la regola a essere uno scandalo per lui, infrangerla era il minimo.

Federer perde la calma, e anche il set, e sembra spacciato. Eppure nel quarto offre una capacità di resistenza in quel momento non scontata. Non si era mai visto costretto a lottare fino a quel punto, contro una sensazione di inferiorità che nessuno riusciva a mettergli davanti nel circuito. Trascina la partita a un quinto set che resterà nella memoria come uno dei più belli delle loro sfide.

L’episodio di scorrettezza che cita Nadal succede nel quinto gioco dell’ultimo set. Federer è avanti 3-1 e servizio, è sul 40-15 ma si lascia rimontare. Sulla parità tira un dritto lungo e poi si mette a discutere con l’arbitro. I suoi turni di servizio cominciano a essere travagliati, Nadal gli prende le misure sempre di più e alla fine ottiene il controbreak. Se questo è stato un grande set è perché i plot twist sono stati diversi. Sul 6-5 e servizio Nadal Federer ottiene due matchpoint, e per due volte sbaglia il dritto: il suo colpo migliore è quello che lo tradirà spesso nei momenti decisivi della sua carriera. Anche sul tiebreak è avanti, 5-3, ma poi si fa recuperare e a Nadal basta un matchpoint per vincere la partita, la sua 53esima consecutiva su terra, con cui eguaglia il record di Guillermo Vilas. Dopo la partita Federer è contrariato, dice che avrebbe meritato di vincere. I problemi tattici che imbrigliano il suo gioco contro Nadal cominciano a mescolarsi con quelli psicologici. La capacità che aveva mostrato fino a quel momento in carriera di giocare meglio i punti importanti comincia a sgretolarsi.

La partita, lunga 5 ore e 5 minuti, resterà la più lunga della loro rivalità.

Una rilassante tortura – vs Roddick 6-4, 6-0, 6-2 – Semifinale Australian Open 2007

Il 2007 rappresenta l’ultima coda del dominio assoluto di Roger Federer su qualsiasi campo da tennis che non sia la terra battuta. Il 2006 è l’anno in cui vince più partite e più tornei e il 2007 comincia allo stesso modo: schiacciando come mosche qualsiasi avversario provi a infastidirlo. Federer gioca come trasognato e al primo Slam dell’anno, in Australia, la questione non è se vincerà ma come . Al terzo turno incrocia Novak Djokovic e gli lascia 10 punti sul suo servizio. In semifinale ha davanti Andy Roddick, la sua vittima preferita, e lo cancella dal campo.

Nessun tennista ha avuto la carriera rovinata da Roger Federer come Andy Roddick, che senza lo svizzero avrebbe avuto probabilmente qualche Slam in più in bacheca. Durante le partite, di fronte ai momenti più mistici del suo avversario, Roddick scuote la testa. In quella semifinale degli Australia Open gli capita molto presto.

Il piano di Roddick è chiaro: aggredire Federer il più possibile, tirare ogni colpo come per lasciare dei buchi a terra, costringerlo a colpire dalla fine del campo. In definitiva, non permettergli di prendere l’iniziativa. Perché se in quel periodo lasci l’iniziativa a Federer lui ti stritola, ti umilia. Va detto che Roddick in questa partita è estremamente centrato. Non si limita a tirare forte col servizio e col dritto ma trova spinte e angoli imprevisti col rovescio, e a rete è più reattivo e preciso del solito. Ha capito che per provare a ribaltare l’inerzia di quella rivalità deve alzare il proprio livello, contestare il controllo della partita a Federer. Anche quella volta, non ci riesce. È come se Federer leggesse sempre in anticipo le intenzioni del suo avversario, che può tirare forte quanto vuole, ma non riuscirà mai a metterlo davvero in difficoltà. C’è un punto che esprime bene questa situazione. All’inizio del secondo set, con Federer già avanti di un break e quindi leggiadro e spensierato. C’è una prima poderosa di Roddick, a cui Federer riesce a rispondere a malapena. Roddick ci si fionda e tira un dritto violentissimo e molto profondo. Federer parte prima, già intuisce dove arriverà. Anche se forse sbaglia il calcolo di qualche centimetro visto che ce l’ha un po’ troppo verso il corpo. Con un autentico gioco di prestigio, però, respinge il colpo con un rovescio di controbalzo che richiede coordinazione e riflessi sovrumani. Il pubblico si lascia andare a un applauso esagerato, tanto che Federer fa un cenno con la mano e ringrazia come per dire di smetterla, che ci stavamo imbarazzando. Mica siamo a teatro.

È difficile scegliere i punti eccezionali di questa partita. Qualche dritto tirato sulla riga da posizioni assurde del campo; o gli scambi lavorati col rovescio in slice, basso e indecifrabile, e che spesso vengono chiusi da un passante. Qualche duello di scherma a rete, dove Federer esce invariabilmente vincitore. Forse vale la pena che vediate il secondo set della partita, quello in cui Roddick fatica a fare dei punti qualsiasi.

Il New York Times commenta questa partita con il titolo «Roddick le prova tutte contro Federer, ma il risultato non cambia». È una delle esibizioni più impressionanti di Federer: vince 6-4, 6-0, 6-2, e dopo la partita dice di essere scioccato da sé stesso. Davvero. Cosa significa pensare una cosa simile? Che Federer si sente abitato da una forza aliena mentre gioca a tennis?

Da spettatori non dico che questa cosa sia chiara, ma in giornate come quella quanto meno si ha la sensazione di qualcosa di strano che agita il campo. Scendiamo in uno stato di leggera narcolessi, mentre vediamo Federer disegnare le eterne geometrie del campo da tennis con una leggerezza speciale, che è difficile da descrivere. È come se gli elementi in campo fossero mossi da una volontà diffusa, come se le cose fossero agite . Uno spettacolo estetico che ha un effetto tranquillizzate, per certi versi opposto all’eccitazione che invece descrive Foster Wallace nei “Momenti Federer”. Se è vero che ci sono colpi incredibili che ci fanno gridare, come quello descritto sopra, per capire l’esperienza Federer non bisogna guardare ai picchi ma alla media, cioè a quanto riesca a semplificare – e a rendere in generale più aggraziati, più perfetti – gli scambi normali della partita, ma anche i suoi tempi morti. Il modo borghese con cui passeggia verso i raccattapalle, gli annuisce, gli  restituisce le palline ; il modo in cui si sistema i capelli o lascia rimbalzare la pallina. È un’esperienza vicina al senso di esattezza dei video “ Satisfying ” in cui le cose si incastrano fenomenologicamente nella realtà in modo troppo preciso per essere vero. Il tipo di video che si usa per rilassarsi, prima di mettersi a dormire. Non ci giurerei che nessuno per addormentarsi non abbia mai usato le partite di Roger Federer. È una sensazione che riesce a restituire fino alla sua ultima partita, cos’è, se non una cosa estremamente soddisfacente , quella pallina che nel doppio della Laver Cup passa fra rete e paletto?

Roddick col tempo migliora, diventa più rapido, preciso, completo. È particolarmente crudele che non sia riuscito a coronare i propri miglioramenti con almeno una vittoria significativa contro Federer. A fine carriera avrà vinto solo 3 partite su 24, non riuscendo mai a batterlo in uno Slam. Federer ha stimolato il miglioramento del circuito attorno a sé, e tutti hanno avuto una loro ricompensa: Nadal, Djokovic, Murray. Roddick è l’unico tra loro che, pur stimolato a migliorare da Federer, ha continuato a non batterlo praticamente mai.

A un certo punto, interrogato su questa presunta rivalità, ha detto di non esserne all’altezza: «Non c’è una rivalità. Per esserci dovrei cominciare a vincere delle partite».

La migliore partita di sempre è anche una sconfitta – vs Nadal 4-6, 4-6, 7-6 (5), 7-6 (8), 7-9 – Finale Wimbledon 2008

È curioso che la partita più celebre della carriera di Federer coincida con una sconfitta, però è significativo del fatto che la sua narrazione, da questa partita in poi, comincia in effetti a nutrirsi anche di sconfitte e cadute.

In questa partita c’è tutto: una rivalità che dopo anni raggiunge il suo apice, un incrocio di stili così perfetto da sembrare sceneggiato, un equilibrio perfetto di forze, un’alternanza di punteggio che fa restare il risultato in bilico fin quasi all’ultimo punto. Naturalmente la cornice più prestigiosa, la finale di Wimbledon sul campo centrale dell’All England Club, e tutto il contesto narrativo che si porta dietro.

Federer e Nadal negli ultimi anni si erano spartiti i tornei su terra e superfici veloci rispettando una rigida diarchia. Rafa era imbattibile sulla terra rossa, Federer su tutto il resto. Nadal, però, ha continuato ad affinare le proprie armi, a essere una minaccia sempre più credibile. Ha migliorato il suo servizio, il suo gioco di volo, il suo rovescio e la sua strategia è diventata sempre più aggressiva. Dopo averlo battuto nella finale di Wimbledon dell’anno prima, Federer ha tirato un sospiro di sollievo, ma sapeva che la minaccia del suo rivale stava diventando sempre più consistente. Tutti i tennisti che restano a lungo numero uno al mondo vivono in una condizione di paranoia. Borg nella sua autobiografia ha raccontato questo costante senso di assedio, a essere il migliore tennista al mondo mentre tutti cercano di prendere il tuo posto. Federer era così distaccato dal resto del mondo che ha sempre potuto stare tranquillo, finché Nadal non è arrivato a minacciarlo nel giardino di casa, a Wimbledon.

La finale del 2008 quindi non ha solo in palio il torneo ma anche il titolo immaginario di miglior tennista al mondo. E in quell’epoca di risultati eccezionali, persino il titolo di miglior tennista della storia. Una resa dei conti tra due giocatori che nel frattempo avevano assorbito le ideologie e le visioni che i tifosi proiettavano su di loro. La fredda eleganza cerebrale di Federer contro il focoso agonismo di Nadal, il maestro del tennis offensivo contro quello del tennis difensivo, un talento così naturale da far sembrare tutto semplice contro un lavoratore che aveva espresso il suo tennis soprattutto attraverso la fatica e il dolore. Dicotomie troppo rigide, ma che avevano preso una consistenza netta e reale nell’immaginario comune.

In quei giorni a Wimbledon si respira un’aria da regicidio. Federer aveva avuto un terribile inizio di stagione, condizionato da una mononucleosi. Si era allenato di meno, e peggio. Agli Australian Open aveva perso da Djokovic in tre set e la madre del serbo aveva dichiarato, sprezzante «Il re è morto». Al Roland Garros si trova Nadal in finale, e quello lo distrugge: 1 ora 48 minuti in cui mette insieme la miseria di 4 game. Nessuno lo aveva mai umiliato così, in quasi 200 partite negli Slam.

Il Roger Federer che scende in campo quel giorno, con la solita aplomb e il bianco cerimonioso del suo completo, è un uomo che deve difendersi, e che molti danno per spacciato. Un uomo che ha sempre dimostrato amore per il simbolismo e le formalità dello sport, e che quindi ci tiene in modo particolare a non farsi spodestare su quei prati: è una questione d’orgoglio, ma anche di identità. Deve dimostrare che la sua era non è finita.

È in questo contesto che si gioca una partita in cui lo stile dei due tennisti si incastra di nuovo alla perfezione, producendo lo spettacolo perfetto. 

Bisogna però andare un po’ in là nella partita per trovarlo, questo spettacolo. Nel primo set Federer gioca in modo piuttosto brillante mentre Nadal si limita a contenere, a sbagliare poco, a mantenere alte le percentuali. Il primo set lo vince Nadal, annullando tre palle break e convertendone una. 

Il secondo set è un manifesto autodistruttivo di Federer, che va in vantaggio di un break, e poi si lascia rimontare. Ha altre palle per tornare in vantaggio, ma le sciupa. Infine perde un set che pensava di poter vincere. Nadal quel giorno gioca con una calma e una razionalità che non aveva mai avuto, nei primi anni di carriera. Non riesce sempre a controllare il contesto, è anzi Federer ad attaccare, rabbioso, come dovesse dimostrare qualcosa. Nadal, però, resiste, non si lascia sopraffare. Un recupero alla volta, uno scambio alla volta, offre a Federer la sensazione che per fare un singolo punto dovrà dare fondo al proprio talento. Nadal ricorda a Federer che il tennis è questione di centimetri. Suo zio, Toni, quando doveva affrontare Federer gli diceva: «Ci saranno dei momenti in cui ti farà sentire inferiore. Lascia passare la tempesta». Nadal, come un abile marinaio, non si limita a far passare la tempesta, ma a domarla, a renderla più innocua. Nadal impediva che con Federer si manifestasse il solito dislivello, in cui i suoi avversari sprofondavano mentre lui partiva per un piano diverso della realtà. Nadal lo incatenava a sé, trasformando quel tentativo di soliloquio in una coreografia a due.

Sul 4 pari del terzo set, dopo un’altra serie inspiegabile di palle break sprecate, Federer si ritrova sotto 0-40. A quel punto succede l’inspiegabile, gli eventi prendono una piega così contraria agli equilibri della partita che sembra esserci un incantesimo, un intervento divino. Il cinismo di Nadal si scioglie: spreca le tre palle break, Federer si porta 5-4 e, come nella notte di Waterloo, tra il 17 e il 18 giugno del 1815, arriva la pioggia a cambiare tutto. Spuntano gli ombrelli e il telone che copre il campo. In tribuna si mormora col disincanto assurdo di chi pensa che la pioggia sia un fatto del tennis: arriva spesso e quando arriva bisogna rispettarla, il gioco deve interrompersi e i giocatori scendere a patti con la discontinuità. Così era fino alla copertura del centrale. I giocatori rientrano nelle loro lussuose cabine del circolo dell’All England Club. Federer riordina le idee e quando rientra in campo offre una delle più grandi esibizioni che si siano viste a Wimbledon. Vince il set 7-5 e nel quarto set compie una rimonta nella rimonta, recuperando uno svantaggio di 5-2 nel tiebreak. Nadal ha due servizi per chiudere la partita, ma perde entrambi i punti. È un momento spesso di tensione: Federer annulla un matchpoint, spreca un setpoint ma poi riesce a trascinare la partita al quinto con la folla in delirio. Nel quinto diventa una partita di falsi finali, in cui entrambi danno l’impressione di potersi abbandonare alla stanchezza, ma poi riescono a centrarsi usando l’adrenalina. Non c’è il tiebreak nel quinto set a Wimbledon e la partita si prolunga nelle tenebre. Si sono fatte le 21, il sole è calato, la visibilità si dirada e persino il giallo della pallina sembra scolorire. I giocatori giocano nella semi-oscurità, stremati dalla stanchezza, e sembrano poter giocare in eterno, incantati. Chi stava guardando quella partita, allo stadio o sul divano di casa, ha iniziato a guardare un evento sportivo di primo pomeriggio, ma la sera si sentiva dentro qualcosa di diverso: una piccola astronave magica ormai alla deriva dal mondo. 

La partita finisce con uno strappo improvviso. Federer sembrava avere ancora delle possibilità, ma è Rafa a mettere in campo la determinazione definitiva. Il fatto che si sia prolungata così a fondo nella giornata ha rafforzato la sua epica. Federer ha accennato al fatto che non riusciva nemmeno più a vedere la pallina, ma di striscio, ha accettato la sconfitta, la più bruciante della sua carriera fino a quel momento. Forse per un attimo ha pensato fosse la fine di tutto, una sconfitta a Wimbledon contro il suo rivale di sempre. Nei giorni successivi però ascolta e legge i discorsi attorno a sé: pochi parlavano della sua caduta, tutti però parlavano della bellezza della partita, dello spettacolo che erano riusciti a produrre. Federer comincia a capire che Nadal non è un ostacolo per la sua carriera, e che la sua legacy non si baserà soltanto sul numero di coppe che riuscirà a mettersi in bacheca, ma dallo spessore delle emozioni che riuscirà a trasmettere. Magari qualcuno lo troverà retorico, ma se è così è perché non era davanti al televisore o sui seggiolini del centrale, quel 6 luglio del 2008.

La migliore prestazione su terra – vs Djokovic 7-6 (5), 6-3, 3-6, 7-6 (5) – Semifinale Roland Garros 2011

Roger Federer si toglierà nel 2009 l’incomodo di dover vincere il Roland Garros. Sfrutterà l’impensabile eliminazione di Rafael Nadal per mano del villain Robin Soderling.

Questo rischia di far dimenticare che la migliore prestazione in carriera di Federer al Roland Garros arriva in realtà due anni dopo, quando di anni ne ha quasi 30 e tutti intorno lo considerano in declino. Del resto Sampras si è ritirato a 29 anni e in quel momento non c’è più solo Rafa Nadal ma anche Novak Djokovic, che arriva al Roland Garros con la serie cannibale di 43 vittorie consecutive.

Il primo set si gioca su picchi di tennis vertiginosi. Non è certo una versione minore di Djokovic, una di quelle che dopo una striscia di vittorie impossibile arriva sgonfiata ed esangue a qualche sconfitta inattesa. Djokovic in quel torneo aveva perso un set solo contro un Del Potro in ottime condizioni. Per il resto la sua superiorità è così schiacciante che gli avversari danno l’impressione di volersi ritirare dai match dopo un paio di game. Federer gioca esercitando una pressione costante da fondo campo, senza però perdere mai il controllo del suo gioco. Senza strafare, né perdere le misure. Djokovic è un computer, per la capacità di assorbire la brillantezza altrui, e impercettibilmente poi salire di giri. In più c’è già il grosso tema delle palle break: nel primo set Federer sciupa 8 palle break su 10.

Federer vince il primo set e lancia un urlo se non altro inconsueto, ma il pubblico gli fa eco: il tifo per lui è sfacciato e a tratti imbarazzante per Djokovic. È un tema che verrà fuori con maggiore scomodità negli anni successivi ma che era presente già all’epoca. Nel secondo set cavalca l’onda, e vince 6-3. L’unico break di distanza non rispecchia la superiorità di Roger nel match. Solo che Djokovic, come da abitudine, sa bene quali punti scegliersi da vincere. In quel set annulla 11 delle 12 palle break fronteggiate. Nonostante un solo break di differenza, pensate che in quel set Djokovic vince poco più della metà dei punti con la prima palla, e poco più della metà dei punti con la seconda.

Nel terzo set Federer si concede una pausa, e quella è sufficiente a far rientrare in partita Djokovic. Quando chiude il set con un ace l’applauso del pubblico è tiepido, sovrastato da un grido mostruoso di Marjan Vajda, allenatore di Novak, che sembra avercela con qualcuno. Nel quarto Federer ha ancora picchi supremi, come in questo punto vinto con un rovescio troppo bello per essere vero.

Ma Djokovic ha un livello medio più alto e sul 4-4 ottiene un break che sembra poter spezzare Federer. Vi consiglio di recuperare quel game, perché si può notare facilmente quanto Federer mal sopportasse il suo avversario. Sotto 0-30 vince uno scambio lungo in cui Djokovic sbaglia un dritto di qualche metro. Federer esulta un “c’mon” un po’ troppo rumoroso, almeno per i suoi standard. Quando invece Djokovic ottiene il break, lo fa su una stecca incredibile di Federer. La palla che sembra poter prendere la strada per la luna. Una stecca forse causata da una risposta a sua volta steccata da Djokovic, che assume un rimbalzo inatteso. Djokovic non esulta, chiede scusa anzi. Il game successivo è ancora di livello eccezionale. Il serbo cerca di sfondare sulla diagonale a lui più favorevole, quella di rovescio, e Federer non solo regge, ma risolve la situazione cambiando ritmo lungolinea. Su quella che lo porta 0-40 Djokovic non può fare a meno di ridere con la lingua di fuori, mentre la folla gli esulta in faccia in modo spietato. Federer si fa annullare due palle break, ma converte la terza. Prima di arrivare al tiebreak ne annulla una a Djokovic, che comunque sembra più in forma, più affilato. Federer gioca però un tiebreak formidabile, non lasciandosi sopraffare nemmeno dalle cose che di solito lo demoralizzano, come una risposta sbucciata da Djokovic sul 2-1 che diventa un quasi vincente, o il nastro che gli annulla il primo matchpoint. Chiude al terzo, una partita che non si tradurrà in un trofeo ma che rimane una dimostrazione di forza notevole. Battere Djokovic sulla superficie a lui meno congeniale, nell’anno in cui Djokovic vince sostanzialmente tutte le partite giocate. La sensazione in quel momento è infatti di sorpresa e choc. Sul Guardian  si scrive «Non molti al Roland Garros, a eccezione di sognatori e ciarlatani, avrebbero predetto uno scenario del genere due settimane fa».

Se Djokovic avesse vinto quel match forse avrebbe comunque perso da Nadal in finale – come successo, inevitabilmente, a questo Federer – ma avrebbe comunque avuto più chance di ottenere il calendar slam poi inseguito per tutta la carriera. Djokovic vincerà Wimbledon e nella semifinale degli US Open si prenderà una rivincita annullando due matchpoint leggendari a Federer, spezzando la diarchia Federer-Nadal in modo definitivo.

Anni più tardi Paul Annacone, allenatore di Federer in quel periodo, dirà: «Quell’anno ha avuto una grande opportunità. Aveva battuto Novak in semifinale, infliggendogli la prima sconfitta in assoluto nella stagione. Contro Nadal in finale era andato in vantaggio 5-2 nel primo set e sembrava avere tutto sotto controllo, ma ha finito per perdere in quattro set lottati. Alla fine del torneo si sentiva molto orgoglioso di ciò che era riuscito a fare».

Il gioco più artistico – vs Murray 7-5 7-5 6-4 – Semifinale Wimbledon 2015

Siamo nell’epoca tarda di Roger Federer, quella in cui ha cominciato a interrogarsi su come girare attorno ai limiti del proprio corpo. A 34 anni, mentre Nadal e Djokovic sono quasi all’apice della loro ultraviolenza, fa due scelte apparentemente in contrasto. Abbraccia la modernità, allargando finalmente l’ovale della sua racchetta, e insieme al nuovo allenatore Stefan Edberg elabora una strategia ancora più aggressiva.

Visto che non può più sostenere scambi molto lunghi, decide di stringere il campo in avanti. Con due passi dentro al campo, colpendo la pallina appena dopo il rimbalzo, si deve correre meno in orizzontale, e si riesce a giocare in modo più offensivo perché agli avversari viene sottratto un tempo di reazione. Questo è il progetto, metterlo in pratica però è un’altra cosa. Per riuscirci Federer allarga appunto l’ovale della racchetta, per aumentare il numero di “sweet spots”, cioè i punti d’impatto ideali; per il resto deve fare col suo sovrannaturale talento cinestesico. 

Questa inedita idea di tennis non produrrà nessun risultato di rilievo, se non alcune prestazioni maestose come questa in semifinale a Wimbledon contro Murray. La partita in cui il suo progetto di tennis offensivo si manifesta in maniera più compiuta, contro uno dei due migliori giocatori su erba di quel periodo. Repubblica scrive di “Partita perfetta” e in molti ricorderanno il game sul 5-4 del secondo set, durato 20 minuti e in cui si giocati 17 punti. Murray vince il game ma alla fine perde in tre set. Federer definirà quella una delle migliori performance in carriera, e nello specifico una delle migliori performance in carriera al servizio. «Ho risposto bene, ma avevo l’impressione che servisse sempre sulla riga oggi» ha detto Murray.

Rispetto a una prestazione simile, Federer giocherà una finale deludente e remissiva contro Djokovic.

L’assenza di vittorie di quella fase di carriera gli conferisce ancora più nobiltà e prestigio: è un’idea di gioco troppo bella per essere anche vincente. È forse il periodo in cui la supremazia estetica di Federer spicca anche per inversa proporzionalità alle sue vittorie. Questa strategia offensiva – di cui la SABR (Sneak Attack By Roger) è l’espressione più nota – è entusiasmante, ma finisce per schiantarsi contro il muro di realtà rappresentato da Novak Djokovic. È un periodo affascinante perché ha lasciato intravedere nuove possibilità espressive nel tennis stesso. Se lo sport, e anche il tennis, sono una forma di manipolazione del tempo e dello spazio, questo periodo di Federer ne è una forma estrema, intransigente. Come le grandi opere d’arte, fa ragionare a fondo sulla relatività di approcci che consideriamo dati di fatto, ma che rappresentano solo la nostra scelta, o il frutto di un corso d’evoluzione storica. E del resto quella di Federer è una svolta simile a quella di un grande artista, che rivoluziona il proprio gioco per mostrarci la realtà da una prospettiva inedita. Solo che dopo che Picasso ha dipinto Les demoiselles d’Avignon in molti lo hanno seguito nella scomposizione della forma figurativa, mentre nessuno poteva provare a replicare il gioco di Federer, nemmeno Federer stesso se voleva provare a vincere ancora. Abbandonato Edberg, è tornato sui propri passi, smettendo i panni del cavaliere romantico all’assalto del campo e della palla.

Il ritorno da fiaba – vs Nadal6-4 3-6 6-1 3-6 6-3 – Finale Australian Open 2017

A 36 anni, dopo un’operazione al ginocchio e il primo infortunio grave della sua carriera, si pensava che Federer rientrasse solo per il suo Farewell Tour. La sua figura inizia a essere circondata di quel misticismo romantico che ha prolungato la sua aura fino al ritiro. Un tennista ormai postumo a sé stesso, che sembra mandare in campo una propria versione fuori dal tempo.

È stato incredibile, quindi, vederlo agli Australian Open tornato su livelli persino migliori di prima dell’infortunio. Lungo il cammino batte Nishikori e Berdych, con prestazioni leggiadre e maestose. Contro Stanislas Wawrinka – uno dei migliori Stan di sempre – viene portato nel territorio di ansia e dolore del quinto set – dopo essere stato in vantaggio 2-0. È praticamente fermo, le gambe imballate, eppure aggrappandosi in tutti i modi al suo servizio riesce a vincere e a regalare il finale da fiaba che tutti si aspettavano, la partita contro Nadal.

Sembra l’ultimo ballo tra due vecchi amanti. Ci sono grandi incognite su come Federer abbia assorbito quei cinque set con Wawrinka, nel torneo in cui rientra dall’infortunio. È considerato sfavorito quindi non solo per ragioni storiche (in fondo fino a quel momento ha vinto davvero poche partite, in assoluto, contro Nadal) ma anche contingenti. È un’altra partita di resistenza alla sconfitta, di guizzi d’energia imprevisti quando tutto sembra finito. Federer vince il primo set ma viene demolito nel secondo e concede delle palle break nel primo game del terzo set. Federer resiste, vince il set, poi crolla nel quarto e pare crollare definitivamente nel quinto, quando si fa strappare il servizio dopo un game durato dieci minuti. Sembra davvero finita a quel punto. Federer sembra lento e acciaccato. Chiama il medical timeout alla fine del quarto set – non gli capita mai. Poi, ciliegina sulla torta, sciupa diverse palle break nei primi turni di servizio di Nadal. È in quel momento, racconta in un’intervista a ESPN, che ha avuto una specie di epifania. Una di quelle rivelazioni banali come tutte le rivelazioni più profonde. La rivelazione, cioè, che non aveva niente da perdere. In fondo stava perdendo quella partita come tante altre volte gli era successo in carriera, lasciandosi rimontare, sprecando le proprie occasioni, impilando i rimpianti uno sopra l’altro. Comincia a giocare in uno stato mentale forse mai avuto in carriera  – «I migliori venti minuti della mia vita su un campo da tennis» li definirà. Vince coronando il suo rientro da favola.

Ci sono soprattutto ragioni tattiche dietro questa vittoria. Nel 2016 Nadal ha avuto un infortunio al polso che ha ridotto il topspin del suo dritto. Il suo movimento è meno strappato ora, la rotazione diminuita, la palla meno penetrante. Federer, d’altra parte, con un ovale più ampio riesce ad approcciare quella diagonale con meno difficoltà. L’impressione è anche che i mesi di riposo e allenamento gli abbiano permesso di sistemare alcune cose del suo gioco. Oltre l’epica, sono queste ragioni tecniche ad aver girato l’inerzia della rivalità Federer-Nadal nei loro ultimi confronti. Prima della finale degli Australian Open Federer aveva vinto solo 1 degli ultimi 6 incontri, dopo vincerà 5 degli ultimi 6, perdendo solo nell’inespugnabile Philippe Chartier di Parigi.

La sconfitta finale – vs Djokovic 6-7 (5), 6-1, 6-7 (4), 6-4, 12-13. – Finale Wimbledon 2019

Nei minuti precedenti alla prima presentazione del mio libro su Roger Federer, a Roma, ricordo che un ragazzo si è avvicinato chiedendomi se, per piacere, potevamo non parlare di questa partita. La seconda parte della storia di Federer è diventata anche una storia di sconfitte. Sconfitte brucianti, spettacolari e diaboliche per come sono arrivate. C’entra sicuramente un bias percettivo legato al tifo, o anche all’estetica intrinseca di Federer. A rendere però più difficili da digerire le sue sconfitte c’è il fatto che raramente sembra aver giocato peggio del suo avversario. E la cosa ci fa interrogare anche sul senso profondo di questa idea che buttiamo spesso là con assoluta leggerezza, e cioè cosa significa giocare meglio dell’avversario, se non vincere?

La crudeltà di questa sconfitta, ciò che la rende la più devastante della carriera di Federer, sta nel fatto che ha reso supremamente impalpabile questa correlazione tra giocare bene e vincere. Ha svelato in tutta la sua inclemenza il paradosso su cui si regge il tennis stesso, uno sport a punteggio alto dove però non è importante fare più punti dell’avversario ma fare l’ultimo punto. Federer ha vinto più punti di Djokovic, ha ottenuto più break, ha tirato più vincenti, è stato migliore in praticamente tutte le statistiche necessarie a vincere una partita di tennis. Eppure ha perso. È una partita in cui brilla il misterioso talento di Djokovic nel trovare la strada per vincere anche dentro la foresta più fitta; ma è anche la partita in cui Federer ha messo più a nudo la propria fragilità. I due matchpoint, in particolare il secondo, continuano a infestare le menti dei tifosi di Federer. Quel dritto d’attacco sbagliato si ricorda con l’assurda precisione con cui ci tornano in mente i momenti traumatici della nostra vita. Nei giorni del ritiro Federer è tornato su quel punto, e lo ha definito l’occasione mancata più grande della sua carriera: «Ci devo pensare, perché ci sono diversi di punti come questo… però dico di sì».

Dopo quella sconfitta Federer andrà in pezzi, fisicamente. Quando proverà un ritorno metafisico e doloroso, a Wimbledon 2021, perdendo da Hurkacz con 0-6 finale, ha già smesso la sua danza col tempo. Ognuno sceglie il finale che preferisce di questa storia. La sconfitta finale con Hurkacz, che ha reso evidente la caduta nel fango dell’entità più divina dello sport contemporaneo? Di certo qualcuno preferisce il finale romantico (quasi melenso) della Laver Cup. Il grande campione che concede l’onore delle armi al rivale di sempre, giocando fianco a fianco la sua ultima partita, tenendogli la mano in lacrime, nel momento della paura e del distacco. La sensazione, però, è che il finale della storia di Federer sia stato quella crudele sconfitta sul centrale di Wimbledon, la partita che più di tutte ha svelato la sua natura umana e divina. La partita che continua a fare eco e a farci struggere. Il suo tennis magnifico, a quasi 38 anni, ma anche la fragilità intrinseca che conteneva, la sua impossibilità competitiva. Nell’aver reso grande e solenne una sconfitta, la più bruciante, sta anche la grandezza di Roger Federer.

Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021).

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